Il lungo giro - Massaggi a Milano

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Il lungo giro

Racconti - 15/11/20 - Autore: Massange -


“Quando tutto sarà finito, mi piacerebbe tanto che la prima fossi di nuovo tu”. Così le scrissi in uno dei tanti momenti grigi del 2020. Senza pensarci troppo, e senza firmarmi. Infatti, non rispose.
 
O meglio non lo fece subito, ma otto mesi dopo, quando tutto per fortuna era finito: “Lunedì riapro, mi accompagni?” fu il suo messaggio, ogni tanto ancora lo riguardo. Quattro parole, un pugno di lettere che, non lo nego, mi colpirono nello stomaco. Era proprio lei, e si i ricordava di me; come io, in fondo in fondo, non l’avevo mai dimenticata. Del resto, non si dice che il primo massaggio non si scorda mai? Ma la cosa più stupefacente era che mi chiedeva di accompagnarla a riaprire lo studio nel suo primo giorno di lavoro nel nuovo mondo. Proprio come era stata lei, a parti inverse, a guidarmi per la prima volta nel mondo dei massaggi quindici anni e una pandemia fa. Anni nei quali non c’eravamo più né visti né sentiti. Non ricordo più il perché, non chiedetemelo, credo capiti a tutti di perdere di vista qualcuno, non ci si frequenta per un po’, poi passano gli anni e…
 
A quel messaggio stavo per risponderle con un fiume di parole, tanta era la mia stupida eccitazione del momento. Dopo tutto, stavo per tornare a fare un massaggio dopo un sacco di mesi di astinenza forzata e avrei ricominciato addirittura con lei. Per fortuna mi accorsi che tutte le parole che si componevano sul cellulare formavano solo domande e frasi stupide. Così cancellai tutto e partì solo un “Certo”. Ci sono persone che, in alcuni momenti, vuoi solo che ti dicano “ci sono”.
Le domande le lasciai ai miei pensieri dei giorni a venire. Quindi ancora pratica? Quindi durante i mesi del Covid ha smesso? Ma sarà sempre al solito posto? Ma come se la passerà? Saranno stati duri per lei questi ultimi mesi? E questi ultimi anni? Sarà cambiata? Quanto sarà cambiata? Per poi darmi una sola risposta, davanti allo specchio: “Pensa invece a quanto sei cambiato tu, pistola”.
 
Il giorno prestabilito arrivò in fretta, ed eccomi che l’aspetto, non davanti al portone ma un po’ più in là, all’angolo tra le due vie. Quando fosse arrivata, questo era il mio piano, volevo vederla prima da lontano, di nascosto, lasciandomi nel caso la possibilità di scappare. Ero in anticipo di mezz’ora, la gente con la primavera e il vaccino era tornata a brulicare per le strade.
Il giorno prima mi aveva scritto: “Ti va bene alle due?” e io con grande sforzo di fantasia: “Certo”. “Ti ricordavo più chiacchierone”, la prima tirata d’orecchie.
Avevo l’impressione che tutte le persone che passavano mi fissassero sospettose, sarà stato forse che dobbiamo ancora riabituarci a vederci senza mascherine. O più probabilmente era solo la mia ansia, la paura di ricominciare tutto daccapo, e guarda caso proprio da dove avevo cominciato tanto tempo prima. Per assurdo con ancora più desiderio e più insicurezze di allora. L’abitudine al contatto umano, soprattutto un certo tipo di contatto umano, purtroppo la si perde se non ci si allena.
 
[Eccola la… ma si è fatta bionda?... com’è cambiata… no non è lei. Per fortuna.]
E intanto che scrutavo tra le persone facevo pensieri tipo ma mi sarò vestito bene? Ai tempi degli esordi, quindici anni prima, era più facile, giacca e cravatta da yuppie e via, non si sbagliava mai. In quel momento invece mi ero messo forse troppo sportivo, classico dei quarantaepassenni che più si avvicinano ai cinquanta e più voglion sembrare ancora ragazzi.
[Ecco ecco è lei di sicuro…] alzai un braccio per farmi vedere, la chiamai, si girò e.... uh mamma, una Mariangela che mi guardava come si guarda un matto maniaco. No non era lei, decisamente. Finsi ridicolmente una telefonata sul cellulare.
Ho sbagliato tutto - continuavo ad arrovellarmi nell’attesa - abiti, appuntamento, profumo. Ma perché l’ho messo? Cosa voglio significarle? Se c’è qualcosa di quasi sempre magnificamente inadeguato in un uomo è il profumo. Ho sbagliato, anche a venire. Sa cosa c’è, ora mi invento una scusa e me ne vad…
 
– “Ciao”
 
Mi girai e si fermò tutto. Il traffico, i rumori della strada, il cuore. Sette secondi a guardarsi, insostenibili, che per fortuna ruppe buttandomi le braccia al collo. Era lei. Ora che avevo il suo corpo addosso e i suoi capelli in bocca ne ero sicuro. Sono il tocco e il sapore il vero lasciapassare tra le persone. Era lei, quella di allora. Solo con un po’ più di tempo e di etti addosso, ma era proprio lei, bellissima
– “Stai bene?”, mi chiese stringendomi ancora un po’.
E alla mia risposta, che sapeva tanto di presa in giro - “Certo!” - si staccò di colpo.
– “Lo studio è là in fondo, non dirmi che non ti ricordi più. Dai vieni!”, disse prendendomi per mano e tirandomi, in un gesto che chissà perché pensiamo possano fare solo le persone giovani. Prese le chiavi da una borsa con le frange, aprì il portone e si diresse in fretta su per le scale, quasi di corsa. E io dietro, la inseguivo rampa dopo rampa. Guardando? Si guardando, impunemente. Tutto quello che quel giorno avevo e avrei avuto.
Le scale le salì tutte così, due gradini alla volta, presa da una strana eccitazione; ma sul pianerottolo si blocco, come impietrita di fronte alla porta dell’appartamento.
– “É un anno che non ci entro…” - nei lunghi mesi prima non era mai voluta tornare, chissà perché, nemmeno per dare una controllatina - “...fai tu per favore?”, disse seria porgendomi le chiavi, “e vedi di non dire Certo”, aggiunse ironica facendo in aria il segno delle virgolette.
Così aprii, la precedetti nel buio e andai a riattaccare l’elettricità dove mi aveva indicato. Poi entrò anche lei guardandosi intorno. Sul pavimento dell’ingresso c’era una busta recapitata sotto la porta da chissà chi. Non la aprì, doveva essere di uno spasimante disperato per la sua scomparsa.
 
Tutto era rimasto uguale esattamente come mi ricordavo: giusto all’ingresso quella sorta di sala d’aspetto dalle pareti giallo scuro, con bancone e poltrona, di fronte la cucina azzurra dove preparava le tisane a sinistra, e poi lungo il corridoio le altre tre stanze, tutte rosso mattone, quella dedicata al nuru con il materassino ancora gonfio appoggiato al muro (quanti capitomboli e quante risate le volte che abbiamo provato!), la stanza segreta sempre chiusa a chiave e in fondo a destra la stanza dei trattamenti con il bagno verde. Spalancammo tutte le finestre,
– “Scusa il disordine”, mi disse arrossendo.
Quando qualcosa la imbarazzava aveva quel suo modo di abbassare gli occhi verdi sopra le gote che si colorano che chissà quanti uomini avrà fatto innamorare. Solo le lentiggini, quelle no, non c’erano più. Che poi era una bugia, era tutto in ordine. Ma preso dalla parte mi misi lo stesso all’opera senza neanche che me lo dovesse chiedere. Iniziai a togliere un po’ di polvere dalle mensole, a sbattere i tappeti, a riaprire il gas e l’acqua, buttai le piante ormai morte. Lei intanto puliva la cucina e il bagno. Le donne mentre fanno i mestieri hanno quel non so che, ma forse era solo lei che aveva quel non so che qualsiasi cosa facesse. A un certo punto la sentii riaccende la segreteria telefonica: “Ci sono 79 messaggi, BIIIP....” che ebbe il buon cuore di non farmi ascoltare.
– “Cosa te ne pare, sono un bravo uomo delle pulizie?” le dissi più per attirare la sua attenzione, non certo per farle pesare l’aiuto.
– “Sei bravissimo”, rispose lei splendente, “fortuna che non sei venuto in giacca e cravatta come al solito”.
Come al solito… lo disse come se fosse una cosa consueta frequentarci, come se non fossero passati tanti anni dall’ultima volta. Mi illusi che si ricordasse tutto, che fosse il suo modo di dirmi che aveva sempre pensato a me, che quel filo sottilissimo e lunghissimo che ci univa non si era mai spezzato, nonostante il tempo e le tante persone che ci si erano sedute sopra. Non poteva essere così, ovviamente, ma ancora oggi me ne frego di quello che tra noi era vero o no, mi voglio ancora cullare in quell’illusione.
Dopo un po’ che vagavo così per l’appartamento mi bloccò e mi tolse la scopa dalle mani
– “Ogni buon lavoro merita la giusta ricompensa, e se mi sdebitassi con un massaggio?” Credo una delle più belle frasi che mi sia mai sentito rivolgere. Quindi io di slancio
– “Cert…! ehm…”
Rise, coprendosi delicatamente la bocca con il dorso di una mano
– “Ma conosci solo la parola Certo, tu?”, rideva di me.
Sorrisi anch’io, stavo al gioco perché non potevo certo ammettere che era l’emozione a rendermi così imbranato.
– “Sembra quella scena di Pulp Fiction”, provai a rilanciare, “tra Jules e il tipo tossico nell’appartamento, non so se hai presente…”
Si illuminò di una luce ancora più abbagliante.
– “Siiii… è veeero… Samuel Lee Jackson e il tizio che diceva sempre ‘cosa’”, disse toccandomi il braccio in un modo che sarei potuto svenire. A quel punto che fai? Gliela reciti la scena, no?

"Dì un po' Marsellus Wallace che aspetto ha?"
- "Cosa?"
"Da che paese vieni, eh?"
- "Cosa?"
"Cosa è un paese che non ho mai sentito nominare. Lì parlano la mia lingua?"
- "Cosa?"
"La mia lingua, figlio di puttana, tu la sai parlare?"
- "Sì!"
"E allora capisci quello che dico, descrivimi Marsellus Wallace, che aspetto ha?"
- "Cosa?"
"Dì Cosa un'altra volta, ti sfido figlio di puttana, dì Cosa un'altra maledettissima volta!"
- "E' nero..."
"Vai avanti!"
- "... e senza capelli"
"Secondo te sembra una puttana?"
- "Cosa?"
BAAAANG!
 
E cascai per terra, fingendomi morto, ma con un occhio mezzo aperto per guardarla. Guardarla che rideva, a crepapelle, mentre provava a continuare la scena e a dire che era uno dei suoi film preferiti di sempre. Meravigliosa. Perché io, quindici anni prima, non l’avessi caricata sulla mia moto per fuggire insieme dicendo “Zed è morto” mi sembrò in quel momento un mistero veramente incomprensibile.
 
Smisi di fare il buffone e obbedii al suo ordine di filare in bagno. Uscito dalla doccia, lei era già nella stanza dei massaggi. Aveva chiuso le imposte, fatto partire lo stereo su una nenia orientale, preparato il grande futon e in ginocchio stava accendendo una alla volta le tante candele che c’erano sul pavimento.
– “Sei pronto? Ora vado io, tu rilassati”, sussurrò immersa tra l’ombra e quella luce gialla che rendeva i suoi lineamenti ancora più morbidi e sensuali.
Mi sdraiai, ancora quasi incredulo di essere lì, tanti anni dopo; era come risedersi al banco delle scuole medie. Avevo imparato talmente bene a gestire le emozioni dei grandi che ad averne una infantile come la trepidazione dell’attesa rischiavo di venirne sopraffatto. Rientrò e io come tutti finsi indifferenza. Entrò in silenzio. Leggiadra, vestita solo di una lunga, leggerissima veste a fiorellini, sul verde, quasi trasparente. Che tirò su con grande eleganza per accucciarsi ai miei piedi. E iniziò lentamente ad accarezzarmi le gambe, sempre in silenzio. In questi incontri ho sempre amato le risate, gli scherzi, le chiacchiere, ma la vera bravura di una massaggiatrice sta in come sa interpretare i silenzi. Io però non riuscii a sostenerlo a lungo quel silenzio e quindi lo ruppi malamente
– “Non sono più il ragazzo di una volta, vero?” le dissi immaginando stesse osservando le mie fattezze. Sì, una di quelle solite tristi frasi solo per sentirsi rispondere “ma vaaa, no, che dici? sei in gran forma, quanti anni hai 38? Un po’ di pancetta ci vuole…” e tutte quelle cose lì che ci diciamo e ci facciamo dire solo per compiacerci.
– “No, per fortuna”, disse invece lei.
No, per fortuna. Giusto. Avevo dimenticato che stavo parlando con una persona speciale. Invece del fatto che stessi ricevendo un massaggio anch’esso speciale me ne accorsi subito. Un massaggio lento, profondo, tecnico ma al tempo stesso amorevole, rilassante ma al tempo stesso eccitante. Un massaggio musicale, rotondo, sereno. Un massaggio umido, filosofico, blu.
– “Quindi hai tenuto chiuso lo studio un sacco di tempo…”, continuai.
– “Sì, per forza…”
Le parole che usava erano sempre poche ma, caspita, erano sempre piene di significato. Per forza, come a dire che per lei era inconcepibile anche solo pensare di comportarsi diversamente. Anche se le sarebbe convenuto. Aveva ragione anche questa volta. Pensai a quanto sia di solito invece debole la natura umana, sempre in bilico tra la propria convenienza e il bene di tutti, tra il fare la cosa giusta e il godersi giustamente la vita.
– “E allora cosa hai fatto in quel periodo?”, insistetti.
– “Tante cose, sono partita, ho fatto un lungo viaggio, fin dall’altra parte del mondo, ho imparato l’inglese, ho riscoperto la mia famiglia, ho letto molto…”
Avrei voluto chiederle un sacco di altre cose, dei posti che aveva visto, delle persone che aveva conosciuto, dei suoi parenti. Volevo interessarmi a lei, come a voler recuperare quei quindici anni perduti. Ma forse sarebbe sembrato solo un interrogatorio, un impicciarsi dei fatti suoi, quindi le chiesi solo la cosa più misera
– “E con i soldi come hai fatto?”
– “Beh sai, mentre tu non c’eri, io qui dentro qualche soldo prima me l’ero guadagnato…”
Mentre tu non c’eri, oddio no, ti prego no. Piuttosto picchiami, ma non dirmi così! Graffiami la schiena con quelle belle unghie curate, ustionami le palle con l’olio caldo, prendi un coltello e pugnalami alle spalle, ma ti prego no, non farmi così male!
– “… e poi, vede, mio padre era un dottore”, aggiunse, “Io non lo so se questa cosa sia stata veramente così terribile come ce l’hanno raccontata o se sia stata un po’ingigantita, magari apposta. Come facevo a saperlo? non potevo, sono solo una massaggiatrice. Semplicemente mi sono detta, io per pagare quei dottori che si fanno il culo non ho mai dato nemmeno un euro. Almeno non portiamogli lavoro in più!” Così, leggera, in un sorriso.
Di fronte alle persone superiori è buona cosa nascondere la propria stupidità e tacere, quindi guardandola negli occhi mi limitai a dirle
– “Tu sei come tuo padre”.
Intuii dalla sua espressione che avesse capito il significato delle mie parole. E credo anche che le abbiano fatto gran piacere visto come tornò a impegnarsi nel massaggio, rendendolo se possibile ancora più bello di prima. Per molto tempo, forse quasi un’ora, diede il meglio di sé.  Riuscì a togliere dal mio sedere tutte le ore passate sul divano nell’ultimo periodo, a cancellare dalla mia schiena le settimane di smart working, riuscì a spazzare via il cumulo di anni che si erano accatastati sulle mie spalle dall’ultima volta che ci eravamo visti. In assoluto silenzio. Mi piace pensare che in quell’ora noi ci si sia parlati comunque. Attraverso le sue mani, attraverso gli occhi, attraverso i pensieri. E che ci si sia capiti e ritrovati davvero.
 
A un certo punto si sedette dietro di me e appoggiò la mia nuca sulle sue caviglie incrociate. Avvicinando una piccola boccetta mi fece respirare un profumo intenso, che non avevo mai sentito, capace di inebriarmi e allo stesso tempo rilassarmi fin nel profondo. E mi massaggiò a lungo il volto. Quando aprii gli occhi mi stava guardando, intensa e penetrante come quel profumo. Non potei fare altro che alzare le braccia, appoggiarle dietro alla sua testa e avvicinare le nostre labbra. Baciarsi al contrario non è certo comodo, anzi. Ma almeno avevamo una prima volta tutta nostra. Poi lei proseguì il percorso, mentre io le sfilavo la veste leggera.
 
Come lei feci il giro completo, non tralasciando un solo centimetro. Amando teneramente ogni sua piccola imperfezione, adorando famelicamente la sua perfezione. Se la mancanza del senso del gusto è un sintomo, beh, io in quel momento ero di sicuro sanissimo.
Era un volersi implacabile, forse figlio della fretta di recuperare il tempo perduto. Piacere, dolore, sudore, sapore. Con le mani e le bocche che si scambiano i ruoli. Uno stringere che diventava strizzare, un baciare che diventava mordere, un donare che diventava trafiggere, un accogliere che diventava concedere.
Arrivarono così la prima ondata e, attesa, la seconda ondata.
Poi, quella invece inaspettata, arrivò anche la terza.
Ci cosparse di olio lì dove prima non serviva. Poi si girò. E mi guidò. Le donne di classe non urlano, in nessuna occasione. A meno che non le si tocchi dentro fin dove prima nessuno è arrivato mai.
 
Quando riaprii gli occhi faticai a mettere a fuoco. Vidi sul soffitto le pale del ventilatore che giravano lentamente. Alcune delle candele sul pavimento si erano spente. Il barattolino del profumo era rotolato in un angolo. Lei era vicino a me, su un fianco, ancora di spalle. La coda di cavallo si era sciolta ma l’elastico era ancora impigliato tra i suoli lucidi capelli neri. Guardai l’orologio sulla parete, erano passate tre ore, era tardi. Anzi, erano passati quindici anni e tre ore dalla prima volta che ero entrato in quell’appartamento. Cosa avevo fatto per tutto quel tempo? Avevo fatto un lungo giro e ora senza accorgermene ero tornato al punto di partenza. Come quelli che si perdono nel bosco e a un certo punto si accorgono di aver camminato inutilmente per ore. Ma non mi sentivo smarrito, ero contento, bene o male avevo vissuto, qualcosa in fondo in fondo l’avevo pur combinata nella vita. E in quel momento ero felice di essere lì, con lei. Con quella vecchia confidenza che si ha quando si rincontra i vecchi amici della scuola, sembra di non essersi persi mai, si torna a parlare senza quelle sovrastrutture e quel cinismo che la vita dei grandi ci mette addosso con gli anni. Ci si sente ancora vivi, come quei ragazzi di allora. No che non era tardi, non è mai tardi per ricominciare.
 
Si girò, non dormiva, era anche lei solo un po’pensierosa. Ma quell’ombra che per un attimo mi era sembrato di intravedere tra i suoi occhi sparì in fretta. E tornò a sorridermi, anche se in maniera più malinconica.
– “Vado”, io.
– “Sì”, lei.
Mi accompagnò lungo il corridoio, in silenzio, con addosso l’accappatoio bianco che avevo appena usato io. Le chiesi quanto le dovevo “per il magnifico massaggio”, ma lei non volle un euro. Glieli dovetti lasciare di nascosto nella sua borsa a frange.
Sulla porta mi salutò come si saluta un cliente qualsiasi, due baci sulle guance e
– “Spero tu sia stato bene, fai il bravo”.
– “Anche tu, mi raccomando”, io uscendo, altrettanto banalmente
 
Il tempo di attraversare il pianerottolo e scendere il primo gradino delle scale e la sentii chiamare forte il mio nome. Uscì di corsa, scalza, e mi si getto addosso. Un abbraccio forte, di quelli che non finiscono mai. Strettissimo, come se l’apparente indifferenza di poco prima si fosse di colpo già sciolta in nostalgia. Mi assaporai altri dieci secondi di quell’abbraccio e dei suoi capelli in bocca. Poi accarezzandole la testa provai a tranquillizzarla
– “Tanto ci rivediamo presto, no?”
Si staccò
mi guardò
sorrise serena
era di nuovo lei
e facendomi il verso
– “Certo!”
 
Non fu così, non l’avrei più rivista. È vero che il tempo è nelle nostre mani, che decidiamo noi come spenderlo, per cosa spenderlo e per chi spenderlo. Ma a un certo punto, prima o poi, il tempo viene e ci porta il conto. Quella sera Miriam chiuse di nuovo la porta dello studio, non so se allegra per aver ricominciato o con il presentimento che sarebbe stata l’ultima volta. Ma non la riaprì mai più.

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