Collie, storia di un massaggio - Massaggi Emozionali a Torino

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Collie, storia di un massaggio

Racconti - 29/03/20 - Autore: Massange -
Navigavo nel Web, alla ricerca di un massaggio in una bottiglia. Qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso in questo mare di annunci lussuriosi e dozzinali. Cercavo, scrollavo, cliccavo foto, come al solito con la testa da un’altra parte. E per l’ennesima volta stavo per chiudere il pc senza aver deciso nulla. Quand’ecco che sullo schermo spuntò un annuncio particolare, mai visto prima; due righe:

Offro massaggio emozionale alla tua altezza, offro il meglio di me, se sarai all’altezza tu”.

E un numero di telefono, fisso. Nient’altro, zero fotografie. Un annuncio misterioso, come a non voler farsi notare, ma proprio per questo ancora più attraente, come un punto nero su una tela bianca. “Le vie del marketing - mi dissi - meglio non fidarsi”. E poi googolandolo nulla si trova di quel numero di telefono; poche informazioni uguale fregatura, magari pure pericolo. Lasciamo perdere.

Il giorno dopo chiamai. Libero, sei squilli, nulla. Al settimo, quando stavo attaccare, ecco che rispose una segreteria telefonica: “Buongiorno, sono Marianna, grazie per aver chiamato – dice una voce limpida, serena, naturale – se sei alla ricerca di un buon massaggio, che possa magari trasformarsi in un bel momento insieme, hai fatto il numero giusto. Ma siccome per un buon massaggio e per un bel momento insieme bisogna essere bravi in due, lascia un messaggio dopo il segnale acustico, dimmi quello che stai cercando e la tua disponibilità di giorno e orario e sarò io a ricontattarti. Forse, se sono la persona giusta per te. E viceversa. Bye bye. BIIIIP”. Neanche il tempo di far finire il segnale, che ovviamente avevo già messo giù.
[Se sono la persona giusta? Ma senti questa! Lascia un messaggio? Ma che storia è? Sono io il cliente, lei è quella che fornisce un servizio; io pago, e sarebbe magari il caso di sapere prima quanto, lei esegue. Punto. Ma chi si crede di essere?!?! E poi, chi cavolo è che usa ancora la segreteria telefonica sul fisso??? Ma và a ciapà i ratt…]

Tempo un’ora e “BIIIP… Ciao cara, sono S., come stai?  - io con voce impostata e fintamente sciolta - ho letto il tuo annuncio e vorrei prenotare un body, diciamo così, emozionale… he he... Sei libera domani alle 18? Questo è il mio numero, se poi mi dici oltre all’indirizzo anche quali sono gli optional del trattamento… he he… e quante rose ti devo portare, meglio. Fammi sapere, principessa. Ciao”. Click
Dopo cinque minuti mi ero già pentito. Non di aver chiamato, anzi che piacere mi aveva fatto risentire la sua voce registrata, ma di ciò che le avevo detto, e di come glielo avevo detto. Mai mi sarei posto così in una telefonata normale, quello del messaggio non ero io, proprio per niente.

“BIIIP Pronto… ehm… ciao Marianna, sono ancora S. - richiamai quella sera stessa - scusa se chiamo a quest’ora di notte, spero di non disturbarti, ma ci tenevo a scusarmi per il messaggio di oggi. Parlare a una segreteria telefonica per prenotare un massaggio… parlavo in quel modo perché non volevo… ehm… farti sentire il mio disagio. Ora non so bene cosa dirti… cioè si lo so… praticamente… mi chiamo S. …ma questo te l’ho già detto… ho quarantatre anni e mi piacerebbe provare il tuo trattamento, di qualsiasi tipo sia. E soprattutto ho una gran voglia di conoscerti. Io non so se dalla voce si possa capire se ci si possa fidare di una persona ma… ehm… spero tanto che tu possa concedermi un appuntamento per un massaggio. Quando vuoi, a quanto vuoi. Dalla tua di voce ho avuto la sensazione… ehm… che tu possa essere una persona BIIIIIIIP”. Click

Passarono i giorni, me ne scordai. Fin quando, una settimana dopo mi arrivò un sms: “Ciao, sono Marianna, scusa se ti contatto solo ora. Ho sentito il tuo messaggio e, se sei ancora interessato ai miei trattamenti, mi piacerebbe molto incontrarti. Ti proporrei…“ e di seguito i dettagli sul quando e il dove. Feci due passi, ci pensai un paio d’ore, avrei voluto chiederle un sacco di cose ma mi limitai a risponderle con un semplice e sincero: “Ok, non vedo l’ora”.

Nei due giorni che passarono prima dell’appuntamento, cercai di non pensarci. Se c’è una cosa che ho imparato è che non bisogna fantasticare troppo sugli incontri futuri, si rischia di rimanere delusi. O di arrivarci non nel giusto modo. Si rovinano le cose a pensarci troppo.
Giunto il momento, mi presentai come al solito puntuale e come al solito con addosso i vestiti e i pensieri dell’ufficio. Bello il quartiere, signorile il palazzo, citofonai digitando sul tastierino elettronico il numero 7, come da indicazioni. Sullo schermo apparve la scritta “Helter Shelter” [???] ma nessuna risposta. Riprovai; niente. Chiamai allora sul cellulare da cui avevo ricevuto l’sms; staccato. Stavo per andarmene con le pive nel sacco, quando decisi di fare un ultimo tentativo, stavolta sul numero fisso. Lo composi attraversando la strada, per provare a scrutare le finestre del palazzo dall’altro marciapiede. Partì la solita segreteria…
“…lascia un messaggio dopo il segnale acustico, dimmi quello che stai cercando e la tua disponibilità di giorno e orario e sarò io a ricontattarti. Forse, se sono la persona giusta per te. E viceversa. Bye bye. BIIIIP”
“Ciao, sono S., forse ti sei dimenticata del nostro appuntamento o forse mi hai dato le indicazioni sbagliate…” – le stavo registrando con tono tutt’altro che amichevole, quand’ecco che dietro una finestra del terzo piano vidi una ragazza che mi stava osservando, sorridendo.
“Scusa ma sei tu alla finestra?”
Fece di sì con la testa, continuando a sorridere.
“Dai fammi entrare…” - la implorai sorridendo anche io.
Ma lei niente, fece segno di no.
“…per favore! Cos’è, devo farti una serena...? BIIIIP” Click.
E lei da lassù fece segno di si, tenendosi una mano davanti alla bocca.
Una situazione kafkiana, avrebbero detto Aldo, Giovanni e Giacomo, ma lei era troppo carina per arrendersi. Lo si capiva pure da tre piani di distanza, anche senza poter vedere i dettagli di quello che c’era sotto quei lunghi capelli neri e quella canottiera sportiva. E così mi armai di una air guitar e cominciai. Non cantavo sul serio ci mancherebbe, facevo finta, ho pur sempre una dignità da mantenere. Ma a gesti feci tutto quello che avrebbe fatto un vero spasimante appassionato sotto la finestra della sua bella. Lei rise, rise proprio, a crepapelle. Figurati quando davanti a me passò una vecchina con il carrello della spesa, a debita distanza da quello che le deve essere sembrato un matto. Era talmente scandalizzata che mi sentii di doverle spiegarle, semplicemente indicandole la ragazza alla finestra. “Bravo, insisti!” mi disse l’arzilla andandosene con un gesto di approvazione. Caricato dalla vecchia, ero pronto a iniziare un’altra strofa, quando vidi Marianna giungere le mani verso la bocca e poi farmi segno di salire.

Riattraversai la strada ed ecco lo zzzz del portone che si sbloccava. Bello il cortile, presi le scale. Fino al primo piano con l’idea di salire a dirgliene quattro alla spiritosona, ma ora del secondo piano la voglia era diventata solo quella di vederla, capirla, conquistarla. Quindi salii l’ultima rampa due gradini alla volta riprendendo a cantare la serenata, questa volta a voce alta “…affacciati al balcone rispondimi al citofono sono venuto qui col giradischi e col microfono insieme al mio complesso per cantarti il sentimento e se tu mi vorrai baciare sarò contento, affacciati alla finestra amore mio, affacciatii alla finestra amoore mioooo, AFFACCIATIII ALLA FINESTRA AMOOOREEEE MIIIIOOOOO”.

“Ma sei pazzo?!? Fai piano che mi cacciano via” - mi venne incontro lei sulle scale, trascinandomi fino al pianerottolo, fintamente scandalizzata, bellissima. E spingendomi dentro mentre io, idiota, andavo ancora di air guitar. Chiuse la porta con la schiena e un sospiro di sollievo, ma ancora ridendo. L’ingresso dell’appartamento era buio, solo una candela accesa su una mensola sotto a un piccolo specchio merlato. Tanto altra luce non serviva, c’era lei. Capelli nerissimi che scivolano fin sotto alle spalle, un viso chiaro impreziosito da due occhi verde foresta. Apparirebbero malinconici, non fosse per quelle curate sopracciglia feline. Qualche lentiggine, un’armoniosa patata di naso e labbra sottili ma piene, nulla che sembrasse aver avuto bisogno di un aiutino. Due perle alle orecchie, in totale contrasto con la situazione e il suo abbigliamento. Spalle, braccia e pancia nude, bianche, dalle linee morbide ma tutt’altro che sovrappeso. E quello che era coperto dalla corta canotta sportiva sembrava essere così altrettanto morbido e vertiginoso che…
“Hei, ci sei? Vado bene?” - interruppe lei quel mio demente fissarla imbambolato - “piacere, Marianna”. Mi porse la mano, giurerei che le gote le si siano arrossite, la strinsi piano. Lei mi trattenne, mi si avvicinò, chiuse gli occhi e mi respirò un istante.
“Caron, buono” - riaprendo gli occhi.
La cosa mi colpì, ma non volli concederle la soddisfazione di darlo troppo a vedere, quindi le dissi solo - “Brava, hai indovinato”.
La seguii lungo il corridoio, pochi secondi che non passai a spiarle il fondoschiena come avrei fatto di solito ma a cercare di capire la sua età. Non che fosse mia coetanea, ma di certo non era più una ragazzina. Entrammo in cucina e con un gesto mi invitò a sedermi vicino al minuscolo tavolo. Si voltò di nuovo.
“La gradisci una tisana?” - disse iniziando a versarmela nella tazza senza aspettare la risposta. “Si certo, grazie. A cosa è?” – risposi mentre ora si glielo scrutavo fugacemente [Mamma mia…].
“Ricetta speciale” - girandosi di nuovo verso di me. Mi porse la tazza e si sedette di fronte, sull’unica sedia rimasta, accavallando le gambe, senza incrociare il mio sguardo. Era seria ora, quasi intimidita, giurerei di un’altra fiammata alle gote, ma allo stesso tempo un po’ severa nell’attaccare con le istruzioni:
“Allora S., io propongo un massaggio un po’ particolare che consiste…” - e via di spiegazione del trattamento, delle regole e di altre robe che non ricordo perché tanto io non la stavo ascoltando. La osservavo e basta, oltre la tazza calda che sorseggiavo senza sosta per dissimulare. Meravigliosa.
Colsi solo la fine del suo discorso - “… tu dimmi soltanto, quanto tempo hai a disposizione?”
“Tutta la vita, se vuoi” - le dissi io di getto, senza pensarci, tanto per fare il piacione.
“Senti, forse non ci siamo capiti” - mi aggredì incazzandosi improvvisamente. Ora sì mi guardava dritto negli occhi - “Se sei venuto qui a fare la parte di superman hai sbagliato indirizzo. Quello che avremo sarà proporzionato a quanto sapremo dare all’altro con sincerità. È la mia unica regola, se ti va bene, bene. Se non ti va bene, andale”.
Aveva ragione. E che idiota che ero stato. Chissà in quanti avevano varcato quella soglia e chissà in quanti si erano innamorati di lei. Non ne potrà più, pensai, di galli e galletti che gliela contano su, di motociclisti, filosofi, viaggiatori, cumenda, palestrati che vogliono conquistarla o anche solo arrivare lì. Per poi deluderla. Era una che si era fatta male, si vedeva, era vaccinata. E incantevole.   
Posai la tazza e lo sguardo e - “Ok”, le risposi già arreso.
Si alzò. Qualche momento di silenzio imbarazzato mentre posava lentamente la tazza nel lavabo. Poi si voltò e mi disse - “Sei pronto, andiamo?”, sorridendo. Con un nuovo cambio di umore che chi non conosce e non ama le donne chiamerebbe follia.

L’appartamento era grande, un paio di porte a destra e a sinistra del corridoio che sarebbero rimaste a me segrete. Il parquet scricchiolava al mio passaggio, non al suo che mi faceva strada scalza e leggiadra, camminando quasi sulle punte. Fino all’ultimo ambiente sulla destra, una grande stanza buia che era evidentemente quella dedicata ai massaggi. Qualche candela accesa per terra, giusto per fare intravedere le pareti rosso scuro intervallate qua e là da oggetti orientali, una piccola bacheca con prodotti e ampolle strane, qualche asciugamano impilato, uno scaldabiberon acceso, uno stereo old style, una sedia di vimini e al centro della stanza un immenso futon, mai visto uno così grande, ricoperto da un lenzuolo dai motivi delicati.
“Per la doccia da questa parte” - mi indicò il bagno comunicante, senza porta, quello invece luminosissimo, sul verde, pieno di piccole piante - “Quando sei pronto mi aspetti sdraiato, ok? copriti pure con uno di quegli asciugamani. Io cercherò di metterci poco a prepararmi” aggiungendo ammiccante - “intendo il poco di una donna, ovviamente…”.
Mi presi anche io tutto il tempo necessario, un po’ perché la doccia era bellissima e i prodotti da hotel 5 stelle, un po’ perché mi misi a pensare, forse anche un po’ troppo, a quello che stava succedendo. [Ma come ci sono finito qui? Ma chi è questa? Certo che è carina… Ma cosa farà ora? E a quanto? Ma soprattutto, cosa si sta aspettando da me?]
Uscii cercando di non bagnare troppo in giro. Accappatoio e asciugamano, mi asciugai piedi e capelli sbagliando l’ordine, e mi spiaggiai sul futon, seguendo il senso suggerito da un sottile cuscino. Provai poi a mettermi uno di quegli asciugamani impilati sul sedere. Volevo farlo bene, che stesse preciso, dritto e senza pieghe ma non c’erano specchi ad aiutarmi.

Bussò alla porta.
“Chi è?” - io, spiritosissimo.
“Morgana” - fece lei entrando, senza portarsi dietro il cellulare notai, e dirigendosi nel bagno. Tirandomi un po’ su riuscivo a sentirla e a vederla, grazie all’apertura senza porta e alla grande specchiera in angolazione favorevole. Mentre si spoglia, entra in doccia, mentre sussurra una melodia una melodia che non conosco. La spiai di spalle, in punta di piedi davanti allo specchio, nell’atto di raccogliersi i capelli in uno chignon. Guardandosi, nuda. Se c’è un’immagine che voglio portarmi stampata in testa finché crepo, è questa. Mi voltai dall’altra parte prima del suo rientro in stanza, facendo finta di non averla spiata. Come se non lo sapesse.

“No, no, scusa ma come ti dicevo all’inizio devi stare sdraiato a pancia su” – disse raggiungendomi.
Ruotai sorpreso, cercando di tenere l’asciugamano fermo al suo posto. Nel farlo notai la t-shirt che indossava senza nulla sotto. Lunga fin quasi alle ginocchia, blu, con stampata l’immagine, deformata dal suo seno, di una donna in estasi che spunta da una stella.
“Ti chiamerò Collie allora” - le dissi facendo riferimento al titolo del disco degli Smashing Pumpkins la cui copertina avevo riconosciuto sula maglietta.
Si fermò un attimo, si capiva che l’avevo colpita, anche se non volle concedermi la soddisfazione di darlo troppo a vedere.
“Bravo, hai indovinato” - disse facendomi il verso. Accese una musica quasi impercettibile, si sedette dietro di me a gambe incrociate e mi invitò ad appoggiare la testa sui suoi polpacci. Obbedii tenendo gli occhi chiusi, pronto a ricevere il trattamento che iniziò con un delicato massaggio alla testa e al volto.
“Come mai inizi così?” – le chiesi piano.
“Credo sia il modo migliore per iniziare a conoscerci – rispose con ancora più grazia – vorrei che tu provassi prima di tutto a entrare in connessione con il mio corpo e con le mie mani. E voglio capire che tipo sei tu, non ti ho ancora ben inquadrato…”
“Ok, benissimo. E dobbiamo stare in silenzio o possiamo parlare?”
“Come vogliamo, come vuoi tu se la cosa ti piace e ti rilassa”.
In realtà ero già rilassato. Anzi beato, in un’emozione tranquilla, immobile in una bolla con il timore solo di farla scoppiare. Ascoltavo la sua voce morbida, i suoi polpastrelli tra i capelli, la pelle delle sue gambe sulla mia nuca, il suo profumo così intimo e vicino. Qualche minuto e iniziò, sempre da quella posizione, a massaggiarmi anche il petto e la pancia. Con forza e delicatezza, come le onde e la risacca. Cercai di rimanere rilassato e di mantenere la calma, non volevo che vedesse l’asciugamano che avevo disteso all’altezza della vita trasformarsi in un tepee. Ci riuscii, faticosamente. Ma iniziai a odiarli gli Smashing Pumpkins che con la loro stupida maglietta si mettevano in mezzo tra me e tutto quello che in quel momento mi accarezzava le guance.
Appena la marea si ritirò un attimo, aprii gli occhi e non feci fatica a trovare i suoi lassù che mi guardavano; in quello che così, al contrario, mi sembrava uno sguardo amorevole.

Levitò e si sedette di fianco a me, per massaggiarmi le mani e le braccia. Sono grandi le mie, di mani. Le sue invece piccole, carnose e morbide, di un candore abbagliante non fosse per il colore scuro delle unghie curate. Continuò a passarmele addosso, con calma ma senza sosta alcuna, impastandomi pezzo pezzo con varie tecniche.
Intanto parlavamo, piccoli dialoghi intervallati da lunghi silenzi. Parlavamo non delle solite cose che si dicono in questi frangenti – dove hai visto il mio annuncio, da dove vieni, di cosa ti occupi, che viaggi hai fatto, indovina quanti anni ho bla bla bla – ma di quello che stavamo vivendo, di come ci sentivamo, dei pensieri che stavamo facendo in quel preciso momento. Il famoso «esserci qui e ora, non con la mente altrove» tanto importante per praticare e ricevere come si deve questo tipo di massaggi.
Ci chiedemmo cose tipo - “Qual è la prima cosa che hai notato di me quando mi hai visto?”
E lei - “La cravatta, adoro le cravatte e la tua la trovo molto elegante. Non so perché voi uomini la portiate sempre meno, è un oggetto così affascinante. C’è tutto un mondo dietro a una cravatta, è un mezzo di espressione, soprattutto per voi che di solito siete una tale noia. E poi dice la verità la cravatta: se sei un figo sei ancora più figo con una cravatta, se sei uno sfigato, lo fa subito capire quanto sei sfigato”.

Oppure - “Ti piace questo massaggio ai piedi? Hai dei bei piedi e sembra che tu non soffra il solletico. I miei invece sono orrendi e soffro il solletico da matti”. E io - “Sì bello il massaggio, un po’ meno i miei piedi. Anche a me piace camminare scalzo, penso che un sacco di cose passino dai piedi. Peccato che siano così sottovalutati. Se uniamo le mani, io e te, palmo a palmo, qualcosa ci trasmettiamo. Sono convinto che coi piedi succederebbe lo stesso”.
“Proviamo” – disse lei e si sdraiò dall’altra parte, speculare a me, mettendo in contatto le piante dei piedi leggermente sollevati e chiedendomi dopo qualche secondo - “Tu cosa senti?”.
Ci misi un po’ a risponderle, poi guardando il soffitto - “Sento dei piedi caldi, i miei saranno gelidi vero? Sento che mi sento un gigante, alto tre metri. Sento che viviamo in due universi paralleli e opposti, io e te, ma che facciamo le stesse cose anche se al contrario, che facciamo gli stessi passi. E che esattamente ora li abbiamo fatti nello stesso punto e nello stesso momento quei passi. Sento che siamo in equilibrio io e te. Che non cadiamo perché siamo già caduti”.
“Ehi..” - mi chiamò invitandomi ad alzare leggermente la testa per guardarla. E dall’altra parte, sorridendo, mi mando un bacio. Solo che io, da quella prospettiva, di suoi sorrisi ne vidi due. [Mamma mia…] Non era un gesto malizioso il suo, alla Catherine Trammell per intendersi, è solo capitato. Ma a quella visione dovetti subito rimetterla giù la testa, iniziava a girare.
Altri attimi così, non so quanti, non c’era un orologio in tutta la stanza, forse era passata già quasi un’ora da quando avevo citofonato.

“Dai, ora girati per favore” - ruppe lei il silenzio.
Mi rimisi a pancia sotto, l’asciugamano cadde su un fianco ma a quel punto non credo fosse più un grande problema. Non lo rimisi a posto, volevo limitare i movimenti al minimo, volevo solo farmi piccolo piccolo e stare lì con lei il più a lungo possibile. Chiusi gli occhi sopra ai miei polsi incrociati e tornai ad ascoltarla e basta.
Stava armeggiando con qualcosa, ma era troppo lieve per far capire cosa stesse facendo, era un fruscio, un vento leggero. Sentii gocce calde che cadevano sui miei polpacci e da lì fino alla schiena; poi sentii le sue mani che iniziavano di nuovo a scorrermi addosso. Non erano gesti erotici, le muoveva in maniera tecnica, prima delicatamente, via via sempre più forte. Stirava i fianchi, contava le singole vertebre, scioglieva le spalle contratte dallo stress della settimana ma anche dall’emozione del momento. Lungamente. Con precisione, con fatica, con quella dedizione che cerchiamo, spesso invano, in ogni massaggiatrice.

Poi sentii lei. Mi risalì, si arrampicò su di me, con ogni suo centimetro finalmente libero, per partire in quello che chiamarlo un body massage mi sembra tremendamente riduttivo. Piuttosto una danza, i cui passi prevedevano che le sue cosce mi percorressero su fino alla testa, una lotta corpo a corpo, con i suoi seni pesanti che si spalmavano ovunque senza pietà alcuna per i miei brividi, un giro sulle montagne russe, da perdere l’orientamento, senza capire più loop dopo loop dov’è il sopra e dov’è il sotto, un volteggio con il mio osso sacro a fare perno al suo ventre. Per tanto, tantissimo, anche se il tempo ormai era un concetto relativo: scorreva lentissimo se parametrato alla mia voglia del dopo, qualunque esso fosse, scorreva invece velocissimo per quella mia composta, silente, cieca goduria che volevo non finisse mai.

Poi il turbinio si placò. E lei si posò, su di me. Gambe sulle gambe, intimità unite, pancia sulla schiena, la sua guancia sinistra sulla mia destra, le sue braccia sulle mie, ad abbracciare la mia testa posata. Divenne la mia pelle, il mio paracadute, il mio zaino dentro il quale c’era tutto quel che volevo in quel momento dalla vita. Dondolavamo piano, in maniera quasi impercettibile. Sentivo il suo cuore battere forte e veloce, probabilmente per lo sforzo della performance massaggifera appena conclusa. Non per altro, ma chissà…
Sentii giusto sussurrarle - “Sei bravissima Collie, è stato sublime, grazie di cuore”.
A quelle parole mi baciò delicatamente il naso, stringendomi mentre io le stringevo le braccia. Girò poi il palmo della mano per accarezzarmi la bocca, gliela baciai, poi presi il suo iniziare a mordicchiarmi come il permesso per girarmi. Così lo feci.
Fu un bacio di quelli che si ricordano, un bacio in crescendo, che inizia con labbra che si sfiorano pudicamente e finisce con il soffocarsi, con il divorarsi letteralmente. Le mani tra i capelli, che imploravano però di essere liberate.

Poi si staccò. E iniziò lentamente a scendere, baciandomi prima i capezzoli, poi lentamente l’ombelico, mentre le sue sopracciglia feline la trasformavano ancor di più in predatrice, poi, puntandosi con le ginocchia e guardandomi negli occhi, la punta ormai li vicina. A quel punto mi prese i polsi e mi invitò su a sedere, e a mollare gli ormeggi. Non mi feci pregare e, come un neonato affamato, abbracciandole i fianchi, mi saziai voracemente lì dove porta il primo istinto d’infanzia.

Poi mi butto di nuovo giù, sdraiato mentre lei rimase lì, ritta in ginocchio. Con le braccia tese, intrecciammo le mani e ci guardammo seri, come a dirci - “da qui in avanti non si torna”.
Scelsi io la risposta e scivolai verso il basso, mentre lei evidentemente d’accordo mi assecondò avanzando leggermente. E aggrappato alle sue natiche le scrissi una poesia in una lingua che non conosceva, dedicata a lei e a tutto quello che c’è di immensamente dolce nel salato.
Non ci mise tanto quel sospiro a trasformarsi in mugolio, poi in una sorta di miagolio, poi in parole sconnesse, poi in un respiro affannoso e sempre più veloce. Interrotto a un certo punto da una lunga, lunghissima apnea. Sorpresi. Come da un acquazzone mentre passeggi sulla spiaggia, come da quella pozzanghera su cui passa l’auto proprio mentre attraversi, come il pilota sfavorito ma arrivato comunque secondo, che si becca volentieri dal primo arrivato la doccia di champagne. Sì, champagne.

“Tu sei proprio pazzo…” - sembrava piangere e ridere allo stesso tempo.
Si chinò nuovamente a baciarmi, come per dirmi insieme grazie e scusa. Poi sempre in ginocchio mi scavalcò e mi si rimise a cavallo, questa volta al contrario. E riscese, ma non per fermarsi. Come quelle vecchie macchine petrolifere nel deserto americano, che al tramonto proseguono calme e incessanti. Facendoci piano piano scoprire profondità che né io né lui avevamo mai visto.

Dopo restammo così, uno abbracciato alla coscia dell’altra. Restammo così per molto tempo, ognuno a riflettere su quello che stava accadendo, credo. Indissolubilmente intrecciati, ma lontani. Io pensai al rischio che si era appena presa, mettendo a repentaglio addirittura la propria vita per dimostrarmi quanto si fidasse di me. O magari solo per darmi piacere fino in fondo.
Non si trattava più di uno scherzo.
Così la presi, sul serio.

“Non devo prenderla troppo sul serio” - mi dissi tra me e me mentre tornavo a casa a piedi. Fuori era buio da un po’; erano passate tre ore dalla mia serenata. “È stato solo e soltanto un meraviglioso massaggio” - cercavo di convincermi camminando veloce.
Lei si era addormentata, avevo pensato che facendo la doccia e rivestendomi l’avrei svegliata ma niente, dormiva sul futon come un angelo. Così l’avevo coperta con un lembo del tessuto, le avevo lasciato sul comodino, avvolti nella cravatta, tutti i soldi che avevo dietro; tanti, ma in un certo senso pochissimi. Le avevo disegnato un grazie Collie e uno smile sulla lavagna della cucina ed ero sgattaiolato via di soppiatto.
“Dimenticatene - continuavo tra me e me – non potrà mai essere meglio di così. Lo sai bene che passare da un universo parallelo a un altro porta solo casini”. “Anzi – si aggiungeva il diavoletto sulla spalla – è il segno che devi smetterla con questi cavolo di massaggi”. E così feci, smisi con i massaggi e la dimenticai.


Cinque mesi dopo. Con in mezzo un inverno pieno di cose, e pieno di sforzi per portare a termine i buoni propositi di settembre; compreso quello di darci un taglio con i massaggi e con i ricordi. Sforzi andati a buon fine, apparentemente.
Una domenica come tante altre, tardo pomeriggio, un weekend che avrebbe meritato di chiudersi con altri programmi piuttosto che quello di fare la spesa, ma tant’è, ero lì al supermercato, carrello ormai quasi completo, nel reparto dei biscotti. A scegliere ultima cosa se cedere ai Krumiri o andare più saggiamente su qualche frollino integrale.
“Scusi signore – mi dice qualcuno tirandomi la giacca – non è che mi aiuta a prendere le Gocciole là in alto?”
“Certo, cara” - risposi alla bambina dal naso a patata e dai lunghi capelli ricci che mi chiedeva aiuto.
Le avevo appena passato il pacco, quasi più grande di lei, che da pochi passi alle mie spalle si sentì un - “Dai Amore, almeno dì grazie al signore che è stato così gentile” di quella che non poteva che essere la madre. La quale poi, rivolgendosi a me – “Ci scusi eh, lei sa come sono fatti i bamb…”

[Collie!]

Fu un attimo, un fulmine, le sue gote infiammate, il mio cuore che di certo ha perso un battito. Le parole che restano sospese perché li non sarebbero state di certo quelle giuste. Gli sguardi che fuggono verso la bambina, un po’ perché è la prima preoccupazione, un po’ per non dover sostenere lo sguardo dell’altro.
“Ciao” - Bella, bellissima, in jeans, allstar e maglione a collo alto. I capelli più corti. Le perle.
“Ciao”
“Mamma, chi è questo signore?”
“Un amico della mamma amore… - e tornando a guardarmi con quello che si sforzava di essere un sorriso - … un vecchio amico”.
“Come stai?” - Io
“Insomma, dai, vado avanti, diciamo bene” – lei. Ma la bimba si stava allontanando quindi mi liquidò subito - “scusa sai, ma dobbiamo prendere ancora un sacco di cose e tra poco chiude quindi…”
E si allontanò, non prima però di avermi stretto forte il braccio poco sotto il gomito, con la sua mano candida, per un attimo soltanto prima di voltarsi e andarsene.

Un gesto al quale mi sarei aggrappato quella e tutte le notti successive. Notti passate praticamente insonni, a pensare a quel giorno, a pensare a lei, a quella bambina, a tutte le loro vite possibili. A pensare ai suoi capelli, alle piantine in bagno, agli Smashing Pumpkins, ai suoi piedi. E a tanto altro di lei, a tutto di lei [Mamma mia…]. In quelle notti presi l’abitudine di comporre il numero fisso dell’annuncio. Evidentemente se lo avevo tenuto in rubrica quel numero, non era poi così vero che volessi dimenticarla. E lo rifacevo quel numero solo per ascoltare di nuovo la sua voce ““Buongiorno, sono Marianna, grazie per aver chiamato” per poi mettere giù prima di far scattare il messaggio. Una, dieci, cento volte.

Finchè un giorno uccisi il diavoletto sulla spalla e lo riascoltai tutto il nastro, senza riattaccare.
Buongiorno, sono Marianna, grazie per aver chiamato. Se sei alla ricerca di un buon massaggio, che possa magari trasformarsi in un bel momento insieme, hai fatto il numero giusto. Ma siccome per un buon massaggio e per un bel momento insieme bisogna essere bravi in due, lascia un messaggio dopo il segnale acustico, dimmi quello che stai cercando e la tua disponibilità di giorno e orario e sarò io a ricontattarti. Forse, se sono la persona giusta per te. E viceversa. Bye bye”.
BIIIP
“…” [e adesso che messaggio lascio? Cosa le dico? Cazzo, non c’ho pensato! Va beh dai...]
E parto con la prima cosa che mi viene in mente, cantare piano, quasi sussurrando - “Affacciati alla finestra amore mio, affacciati alla finestra amoooreee miooo, affacciaaaatiiii allaaa fineee---“

“Pronto” - risponde lei improvvisamente.

“…uh, ma sei lì! … ehm… ciao Collie, sono S. … ehm… quello del supermercato… ti ricordi?”

“Certo che mi ricordo, come potrei non…?”

“Senti volevo dirti che… ehm… volevo solo sapere come stavi. E chiederti se per caso… non lo so, se ti va… posso prenotare un altro massaggio con te”.

“Sì… – dice in un singhiozzo, piange - sì, certo. Quando puoi venire?”

“Mollo tutto e vengo ora, quanto tempo hai a disposizione?”

“… Tutta la vita, se vuoi”.
 

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